La rete è nata come spazio condiviso, ma rischia di diventare un grande centro commerciale.
Internet è un bambino con molti padri. È una tecnologia estremamente complessa e ogni segmento, dai protocolli di comunicazione ai browser, ha una storia intricata. Le radici di internet risalgono agli anni cinquanta, con la diffusione della cibernetica. Poi, negli anni sessanta, è stata introdotta la commutazione di pacchetto, un nuovo modo di trasmettere i dati spezzettandoli in tanti frammenti. Negli anni settanta sono nate molte reti universitarie e governative, che si sono connesse tra loro negli anni ottanta. I primi browser sono apparsi all'inizio degli anni novanta. Ad agosto hanno compiuto vent'anni.
Anche se apparentemente scollegato dagli altri, ogni sviluppo avvenuto nell'industria informatica ha avuto un ruolo importante. L'idea che tutti potessero avere un computer personale, da usare non solo per lavoro ma anche per giocare, è stata il cavallo di battaglia della Apple e della Microsoft negli anni settanta. Perl'IBM, invece, l'informatica era destinata a rimanere qualcosa di costoso, centralizzato e istituzionale. Se questo modo di vedere le cose avesse avuto la meglio, internet non sarebbe mai andata oltre l'email, che probabilmente sarebbe rimasta confinata negli ambienti accademici o della finanza. Il fatto che oggi un telefonino abbia le prestazioni di un computer è frutto del conflitto ideologico tra due diverse idee dell'informatica: quella degli ingegneri e quella dei cheerleaders. Studiare la storia di internet è impossibile senza prendere in considerazione le loro idee, i loro giudizi e i loro desideri. Tra loro ci sono per esempio Stewart Brand, Kevin Kelly, John Perry Barlow e il gruppo che si è riunito intorno alla rivista Wired dopo il suo lancio nel 1993. In comune avevano il fatto di essere maschi, californiani e nostalgici del tumultuoso edonismo degli anni sessanta.
Questi uomini hanno messo in risalto l'importanza della comunità e delle esperienze condivise: avevano un'idea del mondo fondamentalmente positiva, pensavano che il genere umano fosse propenso a una riflessione razionale e alla cooperazione. Profondamente contrari al pensiero di Hobbes, consideravano lo stato e le sue istituzioni come un ostacolo da superare. E quale via migliore del ciberspazio? I valori in cui credevano hanno avuto effetti profondi su internet, anche se non sempre positivi. La proliferazione dello spam e dei reati online, per esempio, è in parte dovuta al fatto che non avevano previsto le conseguenze della struttura aperta di internet. Il primo spam risale al 1978; oggi, l’85% di tutto il traffico email nel mondo è spam.
Ma il vero successo dei cheerleaders è stato aver tolto il controllo di internet dalle mani degli ingegneri, che avevano una mentalità ferma alla guerra fredda. Persone come Nicholas Negroponte o Bill Gates sono riusciti a convincere l'opinione pubblica che internet non era un bar per hippy californiani, ma un posto serio in cui fare affari e diventare più forti. Eliminando gli intermediari. Proprio questa idea di un mondo senza intermediari piaceva sia agli ex hippy comunitaristi sia ai cibersapientoni antisistema. Entrambi volevano che internet "appiattisse" il mondo, che cioè lo livellasse rendendolo più giusto. Gli ex hippy si sono poi ritrovati a cena con gli avventurieri della finanza, che sembravano essere gli unici a credere nello straordinario potenziale di internet. Gli ex hippy credevano sinceramente che i loro progetti utopistici potessero essere realizzati con l'aiuto del capitale privato.
Una miscela pericolosa.
Ma perché gli avventurieri della finanza abbiano trovato internet così interessante è un mistero: a quell'epoca, il mercato della pubblicità online era piccolo e le persone che usavano la rete erano poche. Nel 1995, secondo il sito Internet World Stats, c'erano solo 15mila utenti. Le startup erano ovunque, ma la maggior parte di loro offriva vaghe promesse, non servizi concreti. La scelta degli investitori di non affidarsi ai tradizionali metodi di valutazione finanziaria ha portato alla bolla delle dot-com. Probabilmente il loro giudizio era inquinato da una miscela pericolosa: la retorica dei fan, che sbandieravano la nuova era di internet, e le promesse neoliberiste, che promettevano nuovi modi di fare affari.
Se c'è un sito che sembra avvalorare la filosofia dei pionieri (e cioè che le persone sono buone e, nelle giuste condizioni, sanno collaborare in nome di un obiettivo comune) è Wikipedia. Wikipedia ci ricorda che cosa il web avrebbe potuto essere se l'iniziale idea di internet come spazio condiviso non fosse stata inglobata dal grande business.
La maggior parte delle aziende online ha dovuto costruire il suo mercato attraverso la pubblicità, e questo ha significato dipendere dalle sue regole, tra cui la più importante è la personalizzazione. Gli annunci online sono costruiti in base agli interessi di un utente. Più elementi un sito riesce ad avere su un suo utente, più i suoi annunci saranno efficaci. Avere un'immagine precisa degli interessi di un utente permette al sito di adattare i suoi contenuti. La prova è Google News: una pagina costruita con notizie scelte su misura per ogni utente. Le statistiche dimostrano che chi visita questa pagina clicca su più storie e rimane sul sito più a lungo.
La conclusione logica di questa crescente personalizzazione è che su internet ogni utente ha un'esperienza diversa. Che è tutta un'altra cosa dalla prima concezione di internet come uno spazio comune. Invece di un'internet, dovremmo cominciare a parlare di un miliardo di internet, una per ogni utente. Perfino il browser, l'ultimo bastione dell'esperienza condivisa, è sul viale del tramonto, e viene sostituito da un insieme di applicazioni per smartphone e tablet come l'iPad che offrono un'esperienza personalizzata. Sembra chiaramente una deviazione rispetto al piano originale.
E non è l'unica. Per molti utenti della rete, il potere è stato un'illusione. Abbiamo creduto di avere accesso a dei servizi gratuiti, ma in realtà li paghiamo con la privacy. Ci sembra irrilevante rendere pubbliche alcune informazioni: che importanza ha che un'azienda sappia che musica ci piace? Mau na volta che questa informazione viene analizzata insieme ad altri dati, l'azienda riesce a ricostruire un'immagine di individui e gruppi molto interessanti per chi lavora nel marketing o per i servizi segreti. In futuro la privacy sarà un bene molto prezioso. Ci sono già diverse startup che forniscono privacy a pagamento. E, per ironia della sorte, gli avventurieri della finanza amano queste aziende e investono largamente per trovare le soluzioni agli stessi problemi che hanno contribuito a creare.
La cancellazione di informazioni che sono online è un'altra industria in crescita. Per una cifra che va dai tre ai 15mila dollari, una compagnia come Reputation fa finire qualsiasi informazione in fondo ai risultati di ricerca di Google, o la fa sparire del tutto. Anche questo crea nuovi tipi di diseguaglianza: la possibilità di mantenere una buona reputazione online dipende dalla disponibilità economica. Arrivati a questo punto, la legge potrebbe intervenire: la Finlandia, per esempio, vieta ai datori di lavoro di cercare su Google informazioni sulle persone che si presentano per un colloquio. E in Germania le società non possono controllare sui social netowork i profili dei loro potenziali dipendenti. Ma è poco probabile che queste misure possano prendere piede in paesi che hanno delle leggi deboli sulla tutela dei lavoratori.
Ci viene dato più potere come consumatori, ma contemporaneamente ci viene tolto come cittadini: è qualcosa che i profeti del ciberliberismo non avevano previsto. Anche i forum online per discutere di alcune questioni politiche non hanno mai decollato. Perché internet non può sostituire la politica, anche se può amplificarla: la politica è ancora primaria e la tecnologia secondaria.
Eppure, ci sono degli intermediari tra cittadini e politica che sembrano perdere importanza: i mezzi d'informazione su carta stampata, abbandonati dalle nuove generazioni. Oggi i motori di ricerca e i social network hanno il potere che trent'anni fa era dei giornali e della radio. Il fatto che provino a camuffare le loro scelte editoriali sotto forma di algoritmi teoricamente obiettivi non significa che siano meno politicamente schierati e influenti.
Forse la discrepanza tra gli ideali dell'era digitale e la realtà può essere attribuita all'ingenuità degli esperti di tecnologia. Ma il problema vero è che i pionieri di internet non hanno mai trasformato le loro aspirazioni a un ciberspazio condiviso in regole per la realtà online. È come se avessero voluto costruire una città modello su una collina, ma senza prendersi la briga di spiegare come farla rimanere altrettanto perfetta una volta che avesse cominciato a crescere.
Alcune domande fondamentali sugli aspetti comunitari di internet sono state accantonate. Chi porta fuori la spazzatura, cioè chi si occupa di spam e truffe? Chi si preoccupa di conservare la memoria storica, cioè i tweet e i post dei blog che spariscono nel vuoto digitale? Chi si occupa dell'inquinamento, cioè di tecniche insidiose come l'ottimizzazione dei motori di ricerca o di quei siti, portali e aggregatori di notizie, che producono contenuti insignificanti solo per guadagnare con la pubblicità? Chi tutela la dignità dei cittadini? Chi garantisce la loro privacy e li protegge dalla diffamazione? Forse erano questioni non importanti o poco evidenti quando i motori di cerca erano rudimentali e non esistevano né i blog né Twitter.
All'inizio dell'era del web 2.0, molti di questi problemi sembravano irreali. Eppure ora servizi come Digg, Flickr e Delicious stanno attraversando momenti difficili, e i dati di chi naviga su internet potrebbero non essere più al sicuro con loro perché queste aziende rischiano di fallire. C'è sempre Google, che tiene una copia della maggior parte delle cose, ma anche il gigante del web potrebbe un giorno fallire. I padri fondatori di internet hanno avuto delle ottime intuizioni: la visione utopistica di internet come spazio condiviso per aumentare il benessere collettivo è un buon modello da cui partire. Ma sono finiti nelle mani degli investitori e sono rimasti intrappolati nei discorsi sul self empowerment, che si è rivelato solo una copertura ideologica per nascondere gli interessi delle grandi aziende e scongiurare l'intervento dei governi. La situazione non è ancora irreversibile. Ma è ora di decidere se vogliamo che internet somigli a un centro commerciale o a una piazza pubblica.
Tratto da Prospect
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